Congresso nazionale COIRAG 19-20 maggio 2017

 

 

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Dr. Rossella Chifari1

 

Questo lavoro trae origine dall’esperienza clinica effettuata presso lo Sportello di Solidarietà alle vittime del racket e dell’usura della Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura Italiana (FAI) in cui opero all’interno di una equipe multidisciplinare in qualità di Consulente di area psicologica2.

Il lavoro clinico con gli utenti ha evidenziato come la denuncia rappresenti primariamente un transito psichico, oltre che un passaggio concreto reale, che incrocia il Noi collettivo, ovverosia quella trama connettiva unificante del sistema sociale che è alla base della condivisione di un senso di comunità diffuso.

La denuncia genera sempre una sensazione di estraneità da se stessi e dal proprio mondo sociale; si tratta di un’esperienza in cui si smarrisce il senso di continuità della propria esistenza, in cui si smarrisce la continuità tra la rappresentazione di sé e la rappresentazione del proprio contesto sociale, tra l’immagine di sé e l’immagine di sé  data al mondo, tra rappresentazione di sé e la rappresentazione della denuncia.  Alcuni organizzatori psichici noti su cui si articolava una parte del mondo interno della vittima dopo la denuncia vanno incontro, quindi, a uno scompaginamento. Ciò è vero per tutti gli imprenditori che denunciano, ma assume una valenza più pregnante per quegli imprenditori (la maggior parte) che non hanno scelto di denunciare autonomamente, ma che lo hanno fatto per sollecitazione degli organi inquirenti che, avendo prova del pagamento del pizzo, li hanno posti davanti alla necessità di denunciare o, in alternativa, di essere indagati (ed eventualmente condannati nel successivo processo penale) per il reato di favoreggiamento a Cosa Nostra. La temporalità con cui si approda alla denuncia segna profondamente l’esperienza e incide sull’intensità dello scompaginamento degli organizzatori psichici perché chi non compie una scelta autonoma, non avendo potuto valutare le proprie motivazioni e le implicazioni concrete e immaginarie della denuncia, non sente di avere padronanza del tempo dell’esperienza che sta vivendo. Frequentemente emerge che questi imprenditori sentano di doversi occupare di un evento fulmineo che è già accaduto e ciò suscita un’intensa sensazione d’impotenza. La difficoltà di elaborare un siffatto evento si traduce nell’impossibilità di occuparsi del proprio stato psichico e diventa urgenza di occuparsi solo delle ripercussioni di natura legale ed economica. Solo tempo dopo (a volte tanto) questi imprenditori riescono a effettuare una domanda di aiuto psicologico per se e, a volte, per i propri familiari.

Altresì, la denuncia genera sempre a una sensazione di estraneità dalla propria comunità: la vittima improvvisamente si sente uno straniero in patria. La denuncia, infatti, minaccia il senso di continuità fra l’Io del denunciante e il Noi collettivo. Dal mio vertice di osservazione, il Noi collettivo in terra di mafia è profondamente segnato dall’esperienza del trauma.

Il trauma collettivo è, per definizione, un’esperienza che colpisce un’intera comunità, implica sempre un vissuto catastrofico, può essere innescato da eventi improvvisi, come le catastrofi naturali o gli attentati terroristici, o scaturire da eventi ripetuti nel tempo, come nel caso delle guerre. Al di là del carattere unitario o reiterato nel tempo dell’evento, si tratta di esperienze che colpiscono, facendolo vacillare, il  Noi collettivo (Erikson, 1976).  Nel suo saggio Everything in Its Path, Kai Erkson definisce il trauma collettivo «un colpo sferrato alla trama connettiva della vita sociale che danneggia i legami unificanti che legano insieme le persone, intaccando il senso di comunità diffuso. Il trauma collettivo si fa strada lentamente e persino insidiosamente nella coscienza di quelli che ne soffrono, così che esso non ha la caratteristica dell’immediatezza normalmente associata al “trauma”» (p. 154).

L’esperienza del trauma collettivo in terra di mafia è caratterizzata da eventi singoli di natura violenta reiterati nel tempo che hanno sfaldato la trama connettiva della nostra comunità. Mi riferisco, per esempio, alla guerra di mafia, alle stragi, agli attentati, agli omicidi “eccellenti”, alle sparizioni per “lupara bianca”, alle intimidazioni. Inoltre, la silenziosità della mafia, il suo controllo del territorio (anche attraverso il racket delle estorsioni), la sua capacità di penetrazione nelle pieghe della quotidianità, le infiltrazioni nel mondo della politica, dell’economia e dell’amministrazione, la connivenza, la corruzione, quindi la capacità della mafia di farsi sistema, genera vissuti che implicano ulteriori sfaldature della trama sociale. Questi eventi, queste esperienze, sono depositati nella memoria individuale e collettiva e nel tempo hanno pervaso la nostra comunità di un senso di profonda insicurezza. Le emozioni e i significati connessi a tali esperienze sono così mortiferi da generare da un lato rabbia e desiderio di verità, dall’altro un destabilizzante senso d’inquietudine, che rimanda non solo all’umiliazione della vita, della giustizia e della pietà, ma anche a un senso d’ineluttabilità, quel “non cambierà mai, non finirà mai” spesso ripetuto e che, a sua volta, dà il senso e l’intensità del sentimento di assoluta impotenza, di solitudine, d’ineluttabilità, d’immobilismo.

Per vivere entro siffatte trame sfaldate della comunità, si rende necessaria un’operazione collettiva di rimozione che dà luogo a una pseudonormalità del nostro sistema sociale che consente non solo al sistema mafia di perpetuarsi in nome del potere e, soprattutto, del denaro, ma anche di non suscitare più grande scalpore o indignazione. La pseudonormalità poggia su posizioni psichiche e concrete, individuali e collettive, di compromesso, di “tolleranza” o di “far finta”, che divengono organizzatori psichici “noti”, e per questo rassicuranti, attraverso cui abitare lo spazio comunitario circostante e attuare la riparazione della trama connettiva sociale. La pseudonormalità nel tempo consente la ricostruzione del senso di sicurezza perduto e l’idea illusoria che quanto avvenuto non potrà più accadere, contemplando anche, paradossalmente, la memoria, una memoria svilita, una celebrazione rituale svuotata di significato e di possibilità di elaborazione e quindi di cambiamento. La pseudonormalità, quindi, ripristina e tutela l’idillio collettivo3 che la mente collettiva ha ricostruito per proteggere se stessa e riorganizzare lo spazio sociale e che consente la normalizzazione delle vite di ciascuno dentro uno spazio sociale segnato da ferite profonde, una sorta di patto collettivo inconscio che garantisce alla mente collettiva sicurezza e stabilità.

La denuncia, quindi, rappresenta un’esperienza destabilizzante anche perché obbliga la vittima del racket a occuparsi del trauma collettivo, della pseudonormalità, del tradimento dell’idillio collettivo, della rottura del patto sociale. La denuncia, nel mondo interno delle vittime, è anche l’elemento che riattiva il trauma, poiché impone una sorta di “ritorno del rimosso”, di quel senso di precarietà e di sfaldamento non solo dell’“Io” del denunciante sotto l’influenza di eventi che possono imporsi come traumi individuali (ad esempio, le intimidazioni, le aggressioni fisiche, le minacce), ma anche del Noi collettivo entro cui abita, rendendo nulla la possibilità di continuare ad attuare la “pseudonormalità” e minacciando la sopravvivenza dei legami unificanti fra sé e il sociale. La sofferenza psicologica osservata nelle vittime, da questa prospettiva, assume il significato di una reazione conseguente alla riattivazione del trauma collettivo e all’emersione e all’invasione di tutti i vissuti a esso connessi.

In questo transito psichico individuale che incrocia il Noi collettivo, i sintomi e la sofferenza rappresenterebbero, parafrasando Ludwig Binswanger (1970), la manifestazione dell’impossibilità di “ritrovar senso” o, se vogliamo, l’uso di strategie per “ritrovar senso” e con esso “il proprio posto nel mondo”. Questa sofferenza per alcuni utenti si presenta in forma subclinica, mentre in altri casi ha già assunto forme psicopatologiche più strutturate. Ci sono utenti che sviluppano sintomi come conseguenza all’immediato impatto con gli eventi, siano essi la richiesta del pizzo o la denuncia; altri mostrano un onset più ritardato nel tempo, quando, ad esempio, le complicazioni economiche impongono una messa in discussione del proprio progetto. Altri ancora slatentizzano una sintomatologia molto tempo dopo, nell’ambito di quelli che potrebbero apparire transiti con esiti positivi, ma che non lo sono realmente. Alcuni utenti sono stati affetti da disturbo da stress post-traumatico in seguito all’esposizione alle minacce di morte effettuate attraverso gravi lesioni a scopo intimidatorio, o perché hanno assistito direttamente alla minaccia di morte di un loro familiare. Altri hanno manifestato disturbi d’ansia generalizzata, attacchi di panico, episodi depressivi maggiori acuti e cronici, fobie specifiche, episodi di depersonalizzazione, disturbi dell’adattamento con manifestazioni miste dell’umore e ansia. Altri ancora hanno sviluppato disturbi psicosomatici, anche di grave intensità e con effetti notevolmente disturbanti la vita quotidiana, come la psoriasi e i disturbi gastro-intestinali. Questi disturbi sono causati dalla cronicizzazione di stati di allerta persistenti, da angosce depressive e da angosce persecutorie e dalla cristallizzazione di nodi emozionali come la paura e la rabbia. La paura è il territorio psichico della solitudine e dell’isolamento relazionale, istituzionale e sociale. La rabbia è il territorio psichico dell’ingiustizia sociale e dell’impotenza.

Il lavoro psicologico con questi utenti opera sull’integrazione dell’esperienza della denuncia nel continuum della propria esistenza,  sul rimaneggiamento di alcuni organizzatori psichici, come alcuni aspetti della rappresentazione di sé, dell’immagine di sé data al mondo, della rappresentazione del proprio contesto sociale, ed è teso a far dialogare tutti questi elementi tra loro in maniera fluida  migrando su altri territori simbolici e relazionali, consentendo così l’elaborazione delle angosce depressive e di quelle persecutorie, oltre che un processo di significazione dei sintomi. Il lavoro clinico si caratterizza primariamente come un lavoro che riconnette l’individuo al proprio mondo sociale, a partire  dall’ accoglienza, la legittimazione e l’articolazione della paura e della rabbia perché ciò consente far rimanere la vittima imprigionata  dentro un “dato” concreto, non attraversabile, che continuerà ad essere applicato come unico organizzatore di senso delle esperienze non solo del passato ma anche di quelle attuali e di quelle che verranno, un “dato” che incastra  per sempre l’utente nel ruolo di vittima in un mondo sociale carnefice.

Note

[1] Psicologa Psicoterapeuta; Psicodrammatista junghiana; Consulente di area psicologica presso lo Sportello di Solidarietà alle Vittime di Racket e Usura di Palermo.

2 Lo Sportello di Solidarietà alle Vittime del Racket e dell’Usura di Palermo nasce nell’ambito di un progetto PON FESR “Sicurezza per lo Sviluppo” Obiettivo Convergenza 2007-2013 che ha previsto la realizzazione di due Sportelli di Solidarietà (uno con sede a Napoli e uno con sede a Palermo) e di cui l’ufficio del Commissario Straordinario del Governo per il Coordinamento delle Iniziative Antiracket e Antiusura è Soggetto Beneficiario e la Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura Italiana (FAI) è Partner attuatore. Ogni Sportello di Solidarietà è composto di un’equipe multidisciplinare di consulenti legali, economico/fiscali e psicologici coordinata da un Responsabile di Sportello e affiancata da un Segretario.

3 Parlando di “idillio collettivo” si fa riferimento al concetto di “idillio metropolitano” di Daniele Salerno nel testo “Terrorismo, sicurezza, post-conflitto. Studi semiotici sulla guerra al terrore”, rimodulandolo sulla base delle differenti peculiarità del fenomeno mafioso. Per una trattazione ampia e completa dell’argomento, si rimanda al testo: Salerno D. (2012), Terrorismo, sicurezza, post-conflitto. Studi semiotici sulla guerra al terrore, Libreriauniversitaria.it Edizioni, Padova.

Bibliografia

Binswanger L. (1970), Per un’antropologia fenomenologica: saggi e conferenze psichiatriche, Feltrinelli Editore, Milano; trad. it. a cura di Giacanelli Ferruccio.

Salerno D. (2012), Terrorismo, sicurezza, post conflitto. Studi semiotici sulla guerra al terrore, Libreria universitaria, Padova.

Erikson K.T., Everything in Its Path, Simon and Schuster, New York.

 

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