Relazione tenuta al convegno APRAGIP, 6 – 8 ottobre 2017, Genova

 

Mi propongo qui di ripercorrere la storia dello Psicodramma Analitico Individuativo, dalla nascita all’evoluzione che ha prodotto le attuali caratteristiche.

Denominiamo il nostro Psicodramma Analitico Individuativo, anziché semplicemente Psicodramma Junghiano (termine usato per designare altre scuole di psicodramma che si ispirano in parte a concezioni junghiane) per sottolineare i due caratteri specifici, distintivi del nostro modello.

Analitico in quanto porta alla coscienza sia parti interne non integrate nell’Io, sia il processo che, nella storia personale e transgenerazionale ha strutturato gli attuali modi di essere dell’individuo, fornendogli una libertà di scelta rispetto ad essi.

Individuativo in quanto persegue l’individuazione (nel senso junghiano del termine) dei protagonisti: l’integrazione nel Selbst della molteplicità di istanze presenti nella psiche, sì da ricercare il senso unico e individuale della propria esistenza: traducendo Jung in termini teatrali moreniani: da attore costretto a ripetere copioni altrui, divenire autore e regista della propria vita.

Il nostro psicodramma è nato tra il 1970 ed il 1980 da un modello essenzialmente simile allo psicodramma triadico della Schutzemberger. Voglio anzitutto riconoscere il nostro grande debito verso questa autrice, ma puntualizzare, al tempo stesso, rifacendoci ad una metafora di Raimondo Lullo che confrontando i filosofi della sua epoca con i classici della tradizione li paragonava a nani seduti sulle spalle di giganti che possono vedere più lontano di questi, che noi possiamo vedere i limiti del modello triadico. I tempi sono andati avanti e lo consideriamo superato.

Se fin dal 1970 per noi era stato fondamentale integrare tale modello con la Weltanschauung junghiana, tra il 1980 ed il 2005 vi è stato un continuo confronto critico con lo Psicodramma Moreniano Classico, con differenti scuole di Psicodramma Analitico e, grazie alle diverse, approfondite esperienze personali e professionali di coloro che partecipavano al nostro  gruppo di ricerca e formazione (analisti junghiani prevalentemente, ma anche adleriani, freudiani, transizionali, fenomenologico-esistenziali, ghestaltisti, sistemici e, apporto assai significativo nell’ultima fase, gruppoanalisti) abbiamo fruito di una molteplicità di prospettive, traendone spunti teorici e idee per innovazioni tecniche. Queste non sono state però introdotte con una sorta di sincretismo pressapochista, ma sperimentate e discusse selezionando quelle sole che giovavano alla realizzazione dei fini analitici del nostro psicodramma, modificandole e adattandole ad un procedere coerente. Così rispetto alle infinite varianti dello psicodramma classico ed alle centinaia di tecniche da esso sviluppate, abbiamo scelto di servirci di relativamente poche tecniche che, applicate in molteplici modi portano ad un approfondimento analitico sulla psiche individuale, pur attraverso il gruppo. Ai nostri allievi voglio ricordare come molte tecniche divenute di moda presso i moderni psicodrammatisti siano facili da applicare, suggestive (nei diversi sensi del termine), divertenti per il gruppo e per il conduttore, ma, ai fini analitici, si rivelino superflue, dispersive e superficiali: consiglieremmo allo psicodrammatista serio di resistere al loro indubbio fascino.

Ricordiamoci comunque che lo scopo, importante e degno di ogni considerazione, dello Psicodramma Classico è soprattutto incoraggiare la spontaneità e, attraverso di essa, la creatività e, pedagogicamente, trovare il modo di farlo in ruoli socializzati ed adeguati alla realtà.

Non il dialogo approfondito con l’inconscio, che è invece il nostro obiettivo prevalente.

Abbiamo constatato che nello psicodramma moreniano l’eccessiva cura per la costruzione della scena nei suoi particolari e con l’aderenza al contesto originario, ha purtroppo l’effetto di cristallizzare il copione, sopprimendo possibili insight: il protagonista infatti costruisce la scena secondo ciò che pensa consciamente. Di conseguenza preferiamo lasciar spazio all’improvvisazione ed all’indefinitezza del gioco: questo favorisce l’emergere di contenuti inconsci imprevisti e spiazzanti.

Per lo stesso motivo preferiamo evitare tecniche moreniane quali l’intervista e l’esplorazione del ruolo: in particolare quest’ultimo “uccide” l’emergere improvviso dei vissuti inconsci quando il protagonista, con un rapido cambio di ruolo si trova proiettato in un altro e ne esprime i sentimenti immedesimandosi a caldo nel corso dell’azione drammatica. Anche il riscaldamento è superfluo (ed a volte distorcente), se non nei gruppi che, incontrandosi la prima volta, necessitano di costruirsi una matrice dinamica (nel senso di Foulkes). In un gruppo analitico, la dinamica del gruppo è il solo riscaldamento occorrente. D’altra parte, pur se l’analogia non è rapportabile a tutti gli aspetti della situazione, cosa ne pensereste di un’analista che iniziasse la seduta facendo ascoltare una musichetta o facendo fare esercizi ginnici al paziente? In un gruppo analitico (non quindi finalizzato solo ad esprimere la spontaneità), è necessario evitare che l’analista introduca elementi estranei, da lui arbitrariamente scelti. Quando sono necessarie tecniche di riscaldamento, per non distorcere o inquinare l’inconscio (ancora latente) dal gruppo, si possono concedere tecniche proiettive, quali la sedia vuota o la galleria di quadri i cui contenuti saranno liberamente (e non razionalmente), introdotti dai partecipanti con minima interferenza dal conduttore.

In ogni caso tutte le tecniche su citate producono una rilevante perdita di tempo: ora nello psicodramma analitico individuativo in cui il lavoro sul singolo attraverso il gruppo presuppone più protagonisti e più giochi per ciascuno di essi in ciascuna seduta, si da far interagire dinamiche personali intrecciate, il tempo è sempre troppo poco.

A differenza dello Psicodramma Moreniano, nello psicodramma analitico non c’è la condivisione finale dei ricordi o vissuti evocati dal gioco, ma, dopo ogni sequenza di scene di un protagonista si ha il feed-back, i rimandi: non si tratta cioè di condividere esperienze per creare un’atmosfera piacevole nel gruppo ma di dar modo ad ognuno di vedersi rispecchiato negli sguardi degli altri e, magari, nei loro successivi giochi, di cui i feed-back forniranno gli spunti.

Ancora noi evitiamo le tecniche “palliative” buoniste e suggestive per ammortizzare i conflitti in un lieto finale gruppale: in un gruppo analitico i conflitti vanno espressi, evidenziati, elaborati, non evitati o elusi. Le cosiddette scene di uscita al termine dei giochi che han fatto emergere un rimosso traumatico e angosciante, sono solo un’eccezione apparente: non sono soluzioni inventate suggerite dal conduttore o dal gruppo, ma ricordi del paziente che riattivano sue preesistenti potenzialità positive.

Certo è possibile che, anche nella vita, una persona fortemente angosciata o traumatizzata possa trovar sollievo rifugiandosi nell’ascolto di una soap-opera o giocando al computer, ma l’analisi è tutt’altra cosa.

Osserverei anche come certi rituali moreniani divenuti mode o stereotipi, contro gli stessi principi di Moreno occludano l’emergere del nuovo (che sempre è un po’ anche sofferenza e conflitto) e siano divenuti “conserve culturali”.

Rispetto invece agli psicodrammi che si definiscono analitici (e vogliamo qui in particolare distinguerci da una versione lacaniana dello psicodramma triadico che si è molto diffuso in Italia oltre che in Francia), lo Psicodramma Analitico Individuativo evita, per quanto può, le eccessive verbalizzazioni, che spesso producono razionalizzazioni riduttive, mascherate da analisi. Un gruppo in cui si parla, ci si interroga e magari dopo venti minuti o un’ora si individua un gioco, esemplificativo del problema emerso, sul quale poi il conduttore e lo stesso gruppo fanno piovere interpretazioni verbali non è psicodramma ma un’analisi in un gruppo illustrata da una drammatizzazione.

Nel nostro psicodramma lo spazio lasciato alla verbalizzazione al di fuori del gioco è il minimo possibile, già nella fase iniziale si passa, al più presto, ad una scena di apertura che riflette e rivela la dinamica di gruppo, ma anche dà modo al conduttore di inquadrare la situazione del primo protagonista, orientandolo nella scelta dei giochi successivi. La conduzione rapida (è inutile indugiare su passaggi irrilevanti, discorsi ripetitivi, cambi di ruolo superflui), si sviluppa in una sequenza di scene. Queste da un lato equivalgono alle libere associazioni dell’analisi verbale, dall’altro mostrano la connessione dal vivo tra eventi della storia del protagonista o rivelano l’origine dei suoi ruoli interni. L’interpretazione non è data verbalmente, ma dalla successione dei giochi e dal succedersi dei vissuti in questi espressi dal protagonista stesso.

Se il nostro psicodramma si può dire junghiano non è perché appiccichi su giochi moreniani qualche riferimento verbale a Anima, Ombra, Grande Madre e altri termini dell’arsenale mitologico-archetipico, ma perché si ispira alla visione dialettica e immaginale dell’inconscio junghiano, drammatizzandone le dinamiche col dare voce ai complessi autonomi che le incarnano.

Rispetto allo psicodramma triadico i tre momenti che in esso si accostano e si succedono (Dinamica di gruppo, Gioco psicodrammatico, Interpretazione Psicoanalitica) sono, nel nostro psicodramma, fusi in un momento solo.

La dinamica di gruppo si esprime attraverso i giochi, le scelte dei personaggi per le diverse parti, i rimandi al termine delle sequenze di scene, che innescano subito una sequenza successiva con un nuovo protagonista.

L’interpretazione analitica avviene, come sopra detto, attraverso il gioco, mentre la parte verbale, la restituzione finale di un terapeuta, non ne è che l’esplicitazione attraverso le sue tre funzioni:

  • collegare (gli elementi emersi nel gioco),
  • sottolineare (gli spunti più significativi di questi)
  • provocare (cogliendone paradossi, lacune, questioni rimaste aperte per le sedute successive)

Ma lo Psicodramma Analitico Individuativo ha, in parallelo, sviluppato tecniche specifiche che, pur  se presenti negli altri Psicodrammi, nel nostro hanno assunto caratteristiche e funzioni differenti, subordinate ai fini analitici.

I quattro pilastri del nostro psicodramma sono:

  1. La sequenza di giochi
  2. I cambi di ruolo
  3. L’uso del doppio
  4. Le scene virtuali

Della sequenza di giochi, volta ad esplorare ed approfondire un nucleo problematico portato da un protagonista, abbiamo già detto.

I cambi di ruolo, sono fondamentali in ogni psicodramma, ma se in quello moreniano sono più orientati a far sperimentare e far propri ruoli altrui, con i relativi sentimenti e potenzialità, nel nostro psicodramma servono a recuperare le proiezioni di parti interne del protagonista su altri o a ricostruire come la gruppalità interna del protagonista sia nata interiorizzando altri significativi.

I cambi di ruolo sono mirati e agili: si tratta di scegliere quale parte del protagonista, in quella fase dell’analisi, è utile esplorare e, all’emergere di un vissuto significativo e di un’associazione si è pronti a sciogliere la scena, senza che il protagonista torni al ruolo originario, per passare, col vissuto a caldo, alla nuova scena così evocata.

Innovazioni tecniche nei cambi dei ruoli:

  1. Il cambio interno: il protagonista, facendo un passo avanti o di fianco, diventa una sua parte del corpo o un suo piccolo oggetto non messo in scena: efficace per la rapidità dell’immedesimazione.
  2. Il doppio cambio: il protagonista, dopo il cambio con un altro significativo torna al proprio posto, ma immedesimandosi nell’immagine che l’altro ha di lui (utile per distinguersi dall’immagine che altri ci ha imposto, senza che ne abbiamo chiara coscienza).
  3. Il cambio di ruolo con “personaggi sullo sfondo: in questi non erano presenti fisicamente nella scena rappresentata, ma lo sono nella mente del protagonista o di altri con lui interagenti. Questi cambi sono assai utili per esplorare il labirinto di specchi delle rappresentazioni inconsce e preconsce del protagonista.
  • Il doppio ad opera del conduttore è centrale nello psicodramma analitico. Se nello psicodramma moreniano è, come dice De Leonardis, un doppio “fusionale” che sostiene, incoraggia, guida e stimola il protagonista nel suo ruolo, il nostro doppio al contrario è riflessivo: spinge il protagonista ad osservarsi (come nella funzione moreniana dello specchio, ma in essa il protagonista si vede fisicamente dall’esterno, nel doppio riflessivo si osserva intuitivamente dall’interno). In pratica il conduttore, nella funzione di doppio porta il soggetto a sdoppiarsi (“cosa sento in questo momento?” “perché faccio questo?”) e ad assumere il ruolo di soggetto che si rapporta al ruolo impersonato nella scena, in una sorta di a parte che si prolunga in un soliloquio che in realtà è un dialogo con la voce della propria coscienza. L’importanza di questa funzione ha fatto si che il conduttore non accetti più di giocare parti nelle scene portate, poiché ciò gli impedirebbe di doppiare al momento opportuno. La funzione di doppio è poi, più recentemente (dal 2005 circa) è usata dal “supervisore in sito” nella formazione degli psicodrammatisti: quando il facente-prova di conduttore lo richiede o esita, è incerto, il doppio lo aiuta a riflettere, sul senso di ciò che sta facendo e sulle possibilità che gli si presentano: tale strumento si è rivelato assai efficace).
  • Le scene virtuali sono la più originale innovazione dello psicodramma analitico: sperimentate occasionalmente intorno al 1990, nei decenni successivi la loro tecnica si è raffinata e si è sviluppata la loro base teorica.

Scena virtuale è una scena che non fa parte della storia vissuta e del concreto ricordo del protagonista. Ma non va confusa con la plus-realtà di certe scene moreniane, spesso pedagogiche e suggestive o realizzazioni di desideri consci e superficiali.

La scena virtuale rivela configurazioni latenti già latenti nell’inconscio del protagonista, ha quindi una funzione prettamente analitica.

Ricordiamo le scene future e quelle alternative, che attraverso il successivo cambio di ruolo, fanno emergere le motivazioni ed i timori inconsci del protagonista, le scene raccontate fondamentali nell’esplorare la matrice transgenerazionale, le scene partecipate che rendono visibili le proiezioni del protagonista su fiabe, miti, romanzi, film e, talora, persino sogni altrui.

Dallo psicodramma per soggetti adulti normali sono poi state sviluppate numerose varianti adatte a particolari ambiti

  • Psicodramma per bambini e adolescenti (con l’uso di fiabe create in gruppo, disegni e altro)
  • Psicodramma per schizofrenici (due fasi, nella prima viene superata l’iperinclusione e i blocchi, nella seconda si evidenziano soprattutto cose come le connessioni tra dinamiche familiari e contenuto del delirio)
  • Psicodramma per la terapia della coppia e della famiglia: punto significativo di questo: con l’aiuto di personaggi ausiliari la stessa scena viene giocata secondo i diversi punti di vista di due o di più soggetti, quindi vengono analizzate le connessioni con le due storie personali, ad esempio con le dinamiche delle famiglie di origine
  • Psicodramma di supervisione: utile soprattutto a terapeuti (o altre figure professionali) per immedesimarsi nei pazienti. Inoltre la tecnica delle scene virtuali si è rivelata assai efficace nel far rivivere la storia personale del paziente
  • Psicodramma immaginale in terapia duale: simile all’immaginazione attiva di Verena Kast, ma resa assai più efficace dalla possibilità di cambio di ruolo, con immedesimazione nelle parti immaginali evocate.
  • Sociodramma immaginale. Tecnica inizialmente usata per aiutare gli schizofrenici cronici a superare l’autismo e arricchire il repertorio di ruoli socializzati attivi, si è rivelato utilissima in gruppi di soggetti normali per rivelarne le dinamiche.

Inoltre soprattutto tra il 1990 ed il 2010 è stata sviluppata la teoria dei ruoli-progetto, che si spinge assai oltre la teoria dei ruoli moreniani, integrando di fatto concetti junghiani, fenomenologico-esistenziali, analitico-relazionali, gruppoanalitici, antropologici, con fondamenti che spaziano dall’interazionismo simbolico di Mead alle più recenti ricerche neurofisiologiche. Tale teoria costituisce una solida base per la nostra pratica psicodrammatica, sia nelle situazioni normali che nelle più complesse applicazioni in ambito psicopatologico.

L’APRAGIP si trova ora a possedere un patrimonio di tecnica e di cultura frutto del lavoro, delle ricerche e delle esperienze di quarant’anni d’impegno da parte di un collettivo di psicoterapeuti, psicologi analisti e ancora studiosi di altra formazione.

All’APRAGIP spetta così il compito e la responsabilità di conservare e trasmettere ad altri queste conoscenze.

Torino, 24 ottobre 2017

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